Struttura e senso della settima deduzione in Parm. 164b5-165e1
Il presente intervento si propone di analizzare la settima serie di deduzioni (D7) nel complesso esercizio dialettico articolato nella seconda parte del Parmenide. Questa porzione di testo non ha ancora ricevuto particolare attenzione.[1] L’analisi si concentra sia sull’aspetto strutturale, vale a dire l’architettura della scansione argomentativa, sia su quali possano esserne gli obiettivi teorici. D7 parte dall’ipotesi che l’Uno non sia e considera le conseguenze rispetto ai molti. È oggetto di controversia se le conseguenze per i molti siano pensate rispetto a se stessi o rispetto all’Uno. Una prima discussione consiste quindi nel valutare pro e contro di entrambe le opzioni, anche rispetto alla eventuale simmetria con le altre deduzioni.
D7 si apre con due assunti: primo, gli altri (alla) sono (o gli altri sono altri), perché se così non fosse non si potrebbe parlare di essi; secondo, si deve applicare alla stessa realtà i termini “altro” e “diverso” (heteron). In assenza di uno, si dice che gli altri sono altri, cioè differiscono, in relazione a loro stessi. Il primo cruciale problema esegetico rispetto a questo passaggio risiede nel comprendere la natura di questa differenziazione interna e in che modo essa produca degli ammassi (onkoi). Tali ammassi non rappresentano delle autentiche nature unitarie poiché essi sono indefinitamente divisibili e ogni loro parte a sua volta costituisce un nuovo ammasso con una proliferazione indefinita di caratteri e proprietà.
Viene dunque introdotta la nozione di apparenza su cui ruota l’intera D7. Essa è introdotta per giustificare il fatto che gli ammassi appaiono essere delle unità, ma che non possono essere tali data l’assenza di uno. Da ciò consegue che detti ammassi possono ospitare caratteri sempre diversi e le loro condizioni di identità non possono essere stabilite con sicurezza. È interessante notare come Parmenide faccia riferimento all’attività di cogliere con il pensiero e come essa, in assenza di uno, non riesca a raggiungere un punto fermo circa i suoi oggetti, i quali sono sempre riconducibili a ulteriori determinazioni (definite in questo caso archai e teleutai, evidenziando l’estensione temporale). In questo senso, tutto ciò che si coglie con il pensiero risulta immancabilmente frantumato.
D7 si conclude con l’attribuzione agli altri/molti di tutte le proprietà e del loro opposto. Ciò è però originalmente connesso alla nozione di apparenza. Le molte cose non hanno immediatamente ed evidentemente tutte le determinazioni incompatibili. Attraverso un paragone classicamente platonico, la dinamica fenomenica è comparata alla percezione di un dipinto: da lontano molte cose possono apparire simili, ma avvicinandosi si nota che esse appaiono diverse. Questa similitudine sembra accordarsi felicemente con quanto detto sull’instabilità dell’apprensione mentale rispetto a oggetti che non godono di unità: ciò che si apprende/vede in una prospettiva si rivela differente proseguendo l’indagine/avvicinandosi.
La tensione strutturale di D7 sembra quindi collegare almeno tre nuclei tematici: i) considerare la molteplicità/differenziazione come interna ai molti che la “esercitano” reciprocamente, con la conseguente risultanza di ammassi indefiniti; ii) comprendere la nozione di apparenza come effetto dell’instabilità delle condizioni di identità dei molti derivante dalla loro reciproca differenziazione; iii) l’impossibilità di discernere a livello cognitivo condizioni di identità stabili, dal momento che a ogni punto di arrivo l’oggetto di indagine potrà essere ulteriormente analizzato rivelandosi differente.
Il concetto di apparenza rappresenta il trait d’union dell’intera deduzione. Di grande interesse è l’inferenza condotta da Parmenide il quale asserisce che (1) i molti/altri sono, (2) il loro modo di essere è quello della differenziazione reciproca tale da non concedere condizioni di identità fisse e che (3) pertanto i loro ammassi appaiono (e non sono come appaiono). Il fatto stesso che qualcosa appaia viene a coincidere con il fatto che se in un tempo x1 una cosa si manifesta come Y, in un tempo x2 essa si manifesta come Z, senza poter decidere quale delle due modalità di apparenza sia preferibile o fondata. In questo senso, il concetto stesso di apparenza è spiegato dalla differenziazione interna agli altri dovuto all’assenza di Uno. L’assenza di Uno ha come effetto principale la differenziazione interna ai molti/altri sul piano ontologico e la frantumazione sul piano cognitivo, rimarcando in questo modo la forte correlazione tra i due piani.
Quanto detto finora chiama in causa implicitamente il tema centrale dell’Uno su molti (One-over-many principle) perché considera le conseguenze inaccettabili per lo statuto ontologico dei molti in assenza di Uno. La tesi principale del presente intervento è allora mostrare che il senso di D7 sia evidenziare la necessità onto-epistemologica dell’Uno su molti. Da questa prospettiva è legittimo considerare l’Uno in questione come un eidos qualunque e i molti come le cose che di esso partecipano. Gli effetti dell’assenza dell’uno lasciano intendere quale compito onto-epistemologico esso svolge: senza Uno non solo non si può avere conoscenza sulla natura di F preso in sé ma non si può neanche dire che una cosa che appare F è F, cioè partecipa di F.[2]
Un ultimo spunto problematico deve essere incluso nella presente relazione. L’argomentazione iniziale secondo cui, dato che l’Uno non è, gli altri non possono che differenziarsi rispetto a loro stessi sembra suggerire che se l’Uno fosse allora essi si differenzierebbero rispetto all’Uno. Più chiaramente, il contributo onto-epistemologico fondamentale dell’Uno (cioè ogni eidos) non è solo espresso dal fatto che esso fornisce identità e determinazione alle altre cose che partecipano di esso. La struttura stessa di D7 sembra asserire che l’Uno è anche ciò rispetto a cui gli altri sono altri, cioè ciò rispetto a cui gli altri/molti si differenziano. Il risultato interessante di questo modo di leggere D7 è duplice: in primo luogo, l’Uno non può coincidere con nessuno dei molti/altri che partecipano di esso (si pensi al regresso della Grandezza); in secondo luogo, i molti/altri saranno altri rispetto all’Uno e non tra di loro, ammettendo dunque la possibilità che essi siano simili tra di loro attraverso la condivisione di un carattere comune.[3] Di conseguenza, l’Uno si configura come condizione di identità che strutturalmente riunisce una molteplicità di altre cose distinte, le quali possono essere simili l’una con l’altra attraverso il comune riferimento all’Uno da cui differiscono. In conclusione, la struttura di D7 e il suo significato filosofico risultano intelligibili sullo sfondo del ruolo onto-epistemologico dell’eidos investigato in absentia. Un risultato notevole di questo approccio negativo è una nuova luce sulla nozione platonica di apparenza.
Structure and sense of the seventh deduction in Parm. 164b5-165e1
The present paper purports to analyse the seventh series of deductions (D7) of the complex dialectical exercise exposed in the second part of the Parmenides. This section of the text has not drawn particular attention.[4] The analysis is focused on both the structural aspects, i.e. the argumentative architecture, and the theoretical objectives of the deduction. D7 moves from the hypothesis that the One is not and considers its consequences for the many. It is controversial whether the consequences affecting the many must be drawn for the many in relation to themselves or in relation to the One. The paper very briefly discusses pros and cons of the two options also considering their possible symmetry to the other deductions.
D7 starts with two assumptions: firstly, the others (alla) are (or the others are other) because if they were not one could not speak about them; secondly, one must apply the terms “other” and “different” (heteron) to the same reality. Since the One is not, it is said that the others are other, that is, they differ, in relation to themselves. The first crucial exegetical problem concerning this passage lies in understanding the nature of this internal differentiation and the way it comes down to masses or bulks (onkoi). These masses are no unitary natures because they can be infinitely divided and any of their parts in turn is a new mass resulting in an infinite proliferation of characters and properties.
The notion of appearance is now introduced and the entire D7 hinges on it. It is needed to account for the fact that each mass seems to be one when no such thing is possible, given that the One is not. From this, it follows that these masses are hospitable to changing characters in such a way that their identity conditions cannot be determined with certainty. It is worth noting that Parmenides refers to the act of grasping by means of thought and that if the One is not this act is not able to give durable results: for any apprehension one can have of things they constantly defer to further properties and determinations (here called archai and teleutai, thereby highlighting temporal extension). In this way, anything that can be grasped in thought is inevitably chopped up.
D7 concludes with the attribution of all the properties, incompatibles properties included, to the others/many. This is ingeniously connected to the notion of appearance. The many things do not immediately and clearly possess all the incompatible characters. By resorting to a classically Platonic comparison, appearance is paralleled to the perception of a painting: from afar, things appear to be similar to each other, whereas to a closer look they appear to be different. This comparison squares very well with what has been said about the instability of the objects of mental apprehension if the One is not: that which is apprehended/observed from a certain point of view turns out to be different if one continues the investigation/looks it closer.
The very structure of D7 connects at least three arguments: i) multitude/differentiation is internal to the many, which “perform” it towards each other, thereby producing indefinite masses; ii) the notion of appearance is the effect of the instability affecting the identity conditions of the many, which in turn derives from their reciprocal differentiation; iii) the impossibility to cognitively discern stable identity conditions insofar as, for any conclusion one can arrive to, the object of enquiry can be further analysed and reveals to be different.
The concept of appearance is the trait d’union of the entire deduction. Of great interest is the inference drawn by Parmenides when he asserts that (1) the many/others are, (2) their being consists in reciprocal differentiation in such a way that they cannot be granted fixed identity conditions and (3) therefore the masses of the many appear (and are not as they appear). The fact that something appears comes to be the same as the fact that at time x1 something manifests itself as Y, at a later time x2 it manifests itself as Z, without ever being able to establish which manifestation is true. As a consequence, the reciprocal differentiation due to the absence of the One and internal to the others accounts for the very concept of appearance. The main result of the absence of the One is twofold: on the ontological level, the many/others are internally differentiated; on the cognitive level, the object of cognition shatters, underlining the strong correlation between the two levels.
What has been said so far implicitly refers to the One-over many principle because it singles out the inacceptable consequences for the ontological status of the many, if the One is not. The main thesis of this paper is then showing that the sense of D7 lies in pointing out the onto-epistemic necessity of the One-over-many principle. Thus, in this context the One is being interpreted as any eidos whatsoever, and the many as the sensible things partaking of it. The effects coming from the absence of the One reveal its onto-epistemic role: without the One, say the Form F, one can neither know of F by itself, nor truly assert that one thing appearing to be F is actually F, that is partakes of F.[5]
One last argument needs to be included in this paper. The first argument in D7 that the others have to differentiate themselves (since the One is not) suggests that if the One were, then the others would differ from the One and not from each other. To put it more clearly, the fundamental onto-epistemic contribution of the One, i.e. any eidos, is not just that it provides the others partaking of it with identity and determination. The very structure of D7 seems to be suggesting that the One is also that with regard to which the others are other, which means that from which the others/many differ. The interesting outcome of this reading of D7 is twofold: firstly, the One never coincides with any of the many/others that partake of it (consider the Largeness regress); secondly, the many/others are other than the One and not other than each other, thereby allowing the possibility to be similar to each other through sharing a common feature.[6] Hence, the One figures as an identity condition which structurally reunites a multitude of distinct things that in turn can be similar to each other by referring to the One they differ from. To conclude, the structure of D7 and its philosophical significance become intelligible having in the background the onto-epistemic role of the (absent) eidos. One notable outcome of this negative approach is that it casts a new light on Plato’s notion of appearance.
[1] Non si dà a mia conoscenza uno studio espressamente dedicato a essa, sebbene sia stata considerata senza particolare enfasi nei maggiori commentari al Parmenide.
[2] L’interpretazione qui proposta non intende la molteplicità e instabilità derivante dall’ipotesi di Parmenide come esclusivamente relativa a proprietà numeriche o immediatamente quantificabili (caldo, freddo, etc.).
[3] Questo risulta coerente con quanto detto in Parm. 165c7-d7 dove questa possibilità è esclusa dal momento che le stesse cose appaiono sia diverse che in possesso di una medesima proprietà.
[4] Although the deduction has been taken into account, without particular emphasis, in the major commentaries, I do not know of any study overtly meant to analyse it.
[5] The present interpretation does not consider the instability deriving from Parmenides’ hypothesis as exclusively related to numerical or immediately quantifiable properties (hot, cold, etc.).
[6] This squares with what is said in Parm 165c-d7 where this possibility is ruled out because the same things appear both dissimilar and similar.