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La duplice accezione dell’espressione me esti nella quinta e nella sesta ipotesi del Parmenide

 

La trattazione delle ipotesi in cui si articola la pragmateia del Parmenide può essere oggetto di interpretazione da diversi punti di vista, primi fra tutti quello logico-ontologico e quello epistemologico. La prospettiva che si vuole qui adottare è, invece, quella semantica e, più precisamente, quella relativa all’impiego dell’espressione me esti e alla portata semantica che le viene attribuita.

Non v’è dubbio che Platone mostri in diversi luoghi una chiara consapevolezza della complessità inerente all’impiego congiunto della negazione e del verbo essere. Interessanti elementi di riflessione al riguardo emergono dal confronto fra la quinta e la sesta ipotesi del Parmenide, la cui natura e implicazioni raramente sono state prese in esame in modo del tutto adeguato dalla prospettiva qui proposta: la rilevanza dell’aspetto semantico è testimoniata dal fatto che le conseguenze di queste due ipotesi discendono fondamentalmente dalla diversa maniera in cui è inteso il significato dell’espressione “non è” (dalla diversa maniera in cui è inteso quello che tale espressione semainei, per usare il verbo sintomaticamente impiegato nei passi in questione).

A sostegno di questa affermazione, la prima parte dell’intervento sarà dedicata a una rapida lettura dell’inizio della sesta ipotesi (163c), per sottolineare come: a) lo Straniero avvii l’analisi dell’ipotesi “hei ei me esti” proprio dalla semantica dell’espressione “non è”; b) la serie di conseguenze negative tratte in questa sesta ipotesi discenda dal fatto che l’espressione me esti è intesa come volta a indicare il puro e semplice non essere di ciò a cui è applicata e il suo non partecipare in alcun modo all’essere.

Nella seconda parte dell’intervento sarà brevemente esaminato l’esordio della quinta ipotesi, per ribadire che a’) anche in questo caso lo Straniero pone una questione linguistica (160c6: ismen ho legei; 160c1: legoi); b’) anche in questo caso la serie di conseguenze positive dell’ipotesi discende dal significato che viene attribuito all’espressione me esti nell’ambito del logos in cui compare: poiché lo Straniero mette qui l’accento sul fatto che dire “non è” di qualcosa suppone che i parlanti stiano parlando, per l’appunto, di qualcosa e suppongano dunque che ciò di cui parlano abbia una qualche propria fisionomia, ne deriva per “l’uno che non è” la partecipazione a una serie di determinazioni. In effetti, la differenza rispetto alla sesta ipotesi è che nella quinta l’attenzione si sposta sul soggetto del logos: esso, in quanto non è preceduto da negazione (cfr. 160b5-c1), è anticipatamente posto nel linguaggio come referente di un discorso e dunque come qualcosa di reale.

La duplice accezione dell’espressione me esti in un logos apre dunque, nelle due ipotesi, due diversi scenari. La terza parte dell’intervento sarà volta a mettere in evidenza che la polarità fra questi due scenari di significato è riproposta nelle argomentazioni che Platone mette in bocca allo Straniero nel Sofista quando, per la prima volta all’interno del dialogo, viene esplicitamente tematizzato il nodo concettuale del non essere. Mi riferisco alle pagine 237B-239A, dove sono presentate in successione tre argomentazioni concernenti il non essere: si mostrerà come l’impostazione della sesta ipotesi e le conseguenze che ne derivano siano in relazione con la prima delle tre argomentazioni del Sofista, incentrata sulla nozione di medamos on (che richiama verbalmente l’esordio della sesta ipotesi) e sulla inconsistenza ontologica a cui rinvia il dire me esti. Analogamente, l’impostazione della quinta ipotesi e le conseguenze che ne derivano sono in relazione con la seconda argomentazione del Sofista, ove il non essere è espresso attraverso la formula me on auto kath’hauto ed è dunque pensato come dotato di un suo profilo ontologico, che, per quanto paradossale, risulta passibile di qualificazioni, ancorché solo negative.

L’intento della comparazione fra i passi del Parmenide e quelli del Sofista è mostrare che la quinta e la sesta ipotesi sono emblematiche della riflessione che Platone ha svolto non solo sulla semantica dell’espressione me esti, ma anche, a partire da essa, sulla natura stessa del non essere. Le due ipotesi del Parmenide prese in esame risultano, infatti, opposte e inconciliabili proprio perché attraverso la considerazione della semantica dell’espressione me esti mettono in luce due facce estreme di un unico problema: il problema consistente nel considerare il non essere come assoluto. Infatti, se nella sesta ipotesi l’assolutezza del non essere è presentata come l’effetto nullificante della negazione, la quinta ci pone di fronte a un non essere austero, assolutamente altro dall’essere ma non per questo privo di una sua paradossale dignità ontologica e provvisto, pertanto, di determinazioni. Questa polarità estrema a cui il pensiero e il linguaggio sono ridotti nel riferirsi a ciò che non è viene ripresa, come si diceva, nelle prime due argomentazioni del Sofista, ove tuttavia si profila una possibile sua composizione nella terza argomentazione: quest’ultima prospetta, infatti, seppur in maniera ancora implicita, la soluzione teorica proposta da Platone più avanti nello stesso Sofista, consistente nel negare tanto all’essere quanto al non essere il crisma dell’assolutezza e dell’austerità

Il Parmenide con le due ipotesi qui prese in considerazione dà voce alla problematica del rapporto fra essere e non essere, lasciandola ancora allo stato di dilemma irresolubile, ma anticipando la chiave attraverso cui nel Sofista se ne preparerà la soluzione: si tratta della chiave linguistica che impone di sviscerare fino in fondo le difficoltà in cui il linguaggio si avvolge quando si affronta il tema del non essere.

In conclusione, allargando rapidamente lo sguardo all’architettura del Parmendie, si considererà che, anche dalla prospettiva d’analisi qui adottata, parziale e limitata a due sole ipotesi, può trovare conferma l’idea che la pragmateia abbia la funzione di mettere in scena nodi problematici dell’elaborazione concettuale di Platone e germi delle soluzioni teoriche che il filosofo si accingeva a predisporre in dialoghi successivi.

 

The double meaning of the expression me esti in the fifth and sixth hypotheses of the Parmenides

 

The elaboration of the hypotheses in Parmenides’ second half can be interpreted from different points of view, first of all the logical-ontological and the epistemological one. Instead, the perspective adopted here is semantic, in that it concerns the use of the expression me esti and the semantic value attributed to it.

There is no doubt that Plato shows in different passages a clear awareness of the complexity implied by the joint use of the verb “to be” and of negation. In this regard, interesting points for reflection emerge from the comparison between the fifth and sixth hypotheses, whose nature and implications has been not fully examined from the perspective proposed here: the relevance of the semantic aspect is evidenced by the fact that the consequences of these two hypotheses basically derive from the different ways in which the Stranger explains what the expression “is not” means (or semainei, to use the verb Plato symptomatically uses in these passages).

In support of this statement, the first part of the paper will be devoted to a quick glance at the beginning of the sixth hypothesis (163c), to point out that: a) the Stranger explicitly sets the issue in terms of the semantic value of the expression “me esti”; b) the series of negative consequences drawn in the sixth hypothesis derives from the fact that in this context the expression means the absolute non-being of what me esti and its lack of participation in being

In the second part of the paper the beginning of the fifth hypothesis will be examined quickly, to confirm that a’) also in this case the Stranger poses a linguistic question (160c6: ismen ho legei; 160c1: legoi); b’) also in this case the series of positive consequences of the hypothesis derives from the way in which the expression is supposed to give meaning to the logos in which it appears: the Stranger puts emphasis on the fact that the whoever says “is not” of something is supposed to be talking about something that possesses own lineaments. This is the reason why the Stranger attributes to “the one that is not” the participation in a series of determinations. In fact, the fifth hypothesis differs from the sixth one because it focuses on the subject of the logos: inasmuch as the subject is not preceded by negation (see 160b5-c1), it is placed in advance in language as the referent of the speech, and therefore as something real.

The double meaning attributed to the expression me esti in a logos seems to open two different scenarios, as shown in the considered passages. The third part of the paper will be aimed at highlighting that the polarity between these two scenarios is displayed in the arguments that Plato puts in the Stranger’s mouth in the Sophist when the problematic issue of non-being is explicitly thematised for the first time in the dialogue. I am referring to pages 237B-239A, where three arguments concerning non-being are developed in succession. I will argue that the formulation of the sixth hypothesis and the derived consequences are related to the first argument of the Sophist, which takes into account the notion of medamos on (verbally recalling the beginning of the sixth hypothesis) and the ontological inconsistency involved in saying “me esti”. Similarly, the formulation of the fifth hypothesis and the derived consequences are related to the second argument of the Sophist, where non-being is expressed through the formula me on auto kath’hauto and is therefore thought of as having its own (paradoxical) ontological profile, which can be described through attributes, even if only negatively.

The intent of the comparison between the passages of the Parmenides and those of the Sophist will be to show that the fifth and sixth hypotheses are emblematic of the reflection that Plato carried out not only on the semantics of the expression me esti, but also, starting from this, on the very nature of non-being. The two hypotheses of the Parmenides taken into consideration are, in fact, opposed and irreconcilable precisely because they highlight two extreme faces of the same problem: the problem consisting in considering non-being as absolute. On the one hand, in the sixth hypothesis the absoluteness of non-being is depicted as the nullifying effect of the negation; on the other hand, the fifth hypothesis places us in front of an austere non-being, absolutely different from being and nevertheless possessing a (paradoxical) ontological dignity and, consequently, determinations. This extreme polarity, which thought and language are reduced to in referring to non-being, is resumed, as previously said, in the first two arguments of the Sophist, where, however, a possible composition of them arises in the third argument. For this argument anticipates, even if in an implicit way, the theoretical solution proposed by Plato later in the Sophist, when both the being and the non-being will be denied the absoluteness and the austerity.

Through the two hypotheses considered here the Parmenides gives voice to the problem of the relationship between being and non-being, leaving it to the state of an unsolvable dilemma, but at the same time anticipating the conceptual strategy through which the Sophist will prepare its solution: I am referring to the linguistic perspective that requires a thorough examination of the difficulties in which language is involved when the issue of non-being is addressed.

In conclusion, the whole structure of the Parmendes will be rapidly considered. Although the point of view adopted here is partial and limited to only two hypotheses, it sheds some light on the function of the pragmateia: the function of displaying problematic issues of the conceptual elaboration of Plato and germs of the theoretical solutions that the philosopher was about to prepare in subsequent dialogues.

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