Sulla ὁμοιότης nel linguaggio e nell’essere a partire da Proclo, interprete del Parmenide di Platone
Il paper si concentrerà su un’idea ben precisa del Parmenide, quella attraverso la quale l’Eleate, fin dalla prima parte (130e4-131a1) e poi nella sua gymnasia (147d1-e3), stipula un legame, un nesso ermeneutico tra essere e linguaggio. La domanda iniziale è questa: perché proprio il linguaggio? Perché Platone, per bocca di Parmenide, per comprendere la relazione tra l’uno e i molti, deve utilizzare proprio il confronto con i nomi? A mio parere Proclo ci aiuta nel trovare una possibile risposta a tale questione.
Negli Elementi di teologia (65, 1-2), il filosofo licio dichiara che le cose possono esistere in tre modi: nella loro stessa essenza (καθ᾽ὕπαρξιν), oppure in quanto contenute nella loro causa sotto forma di principio (κατ᾽ αἰτίαν), oppure ancora in quanto partecipate dalla loro causa sotto forma di immagine (κατὰ μέθεξιν εἰκονικῶς). L’essere iconico di una cosa descrive proprio quest’ultima maniera di esistere: questa designa una cosa che è in relazione di rappresentazione con un’altra che è ad essa superiore ma che in essa stessa tuttavia si conserva; questa relazione di partecipazione, che ha una natura evidentemente ontologica, considera il produttore contenuto nel prodotto (τὸ παραγόμενον) che, a sua volta, manifesta in se stesso (ἐν ἑαυτῷ δείκνυσι) in maniera secondaria (δευτέρως) ciò che il produttore (ὃ τὸ παράγον) è a titolo primario (ὑπάρχει πρώτως). Ebbene, la modalità di esistenza del nome è proprio κατὰ μέθεξιν εἰκονικῶς e ciò che a mio parere si rivela interessante è che proprio a questa modalità iconica di esistere si riferiscono sia Platone che Proclo quando vogliono mettere in connessione l’essere dei molti e l’essere del linguaggio. Tale modalità di esistenza è alla base sia dell’essere sia della sua espressione. Due cose, infatti, rappresentano meglio di ogni altra tale maniera iconica di essere: il nome e i molti.
Per Proclo il nome e l’immagine s’identificano con la relazione, essi sono la relazione. La natura iconica del nome lo rende lo strumento più adatto a rappresentare anche la relazione ontologica: è proprio questa, infatti, che ne garantisce l’origine naturale, il suo essere ontologicamente legato all’essenza della cosa nominata (In Crat. 48, 16, 13-19). È nel Commento al Parmenide, però, che Proclo spiega chiaramente che l’immagine ha una sua natura ontologica ben precisa e autonoma. Caratteristica essenziale dell’immagine è che essa sia al tempo stesso simile e dissimile rispetto al suo modello, affinché ciò che è immagine di una cosa si distingua dal suo modello. È così che, interpretando Parm. 130b1-6, a proposito della somiglianza come principio cosmogonico, l’esegeta spiega che perché una cosa sia l’immagine di un’altra, sono necessari al tempo stesso il dissimile e il simile (τὸ ἀνόμοιον καὶ τὸ ὅμοιον). La somiglianza forma una coppia con la dissomiglianza in maniera naturale, perché le cose create secondo la somiglianza con il loro modello sono anche distinte dal loro modello. Né le cose solamente simili sono immagini, perché il simile senza il dissimile è modello e non immagine; né lo sono le cose solo dissimili, perché il nome stesso di immagine designa qualcosa che somiglia ad un’altra cosa (Procl. In Parm. 3, 805, 22-26). Ciò che risulta di massimo interesse è che la sola relazione che il simile e il dissimile indicano è una relazione di tipo ontologico, quella che esiste tra gli esseri di ordine inferiore e gli esseri di ordine superiore, quella cioè in grado di spiegare la relazione tra l’uno e i molti, tra le immagini e i loro modelli (In Parm. 3, 806, 11-21). Allo stesso modo, un nome se contiene allo stesso tempo elementi simili ed elementi dissimili, non si allontana dall’essenza della cosa di cui è nome, ma manifesta piuttosto la sua propria natura relazionale, iconica appunto.
Che il linguaggio e l’essere condividano natura ed espressione, lo dimostra, infine, uno sviluppo figurativo che tale teoria assume nell’interpretazione procliana sia del Parmenide che del Cratilo. Mi riferisco al nome come ἄγαλμα delle cose nominate. Proclo, quando deve spiegare l’omonimia tra idee e partecipanti (Platone ne parla in Parm. 130e4-131a1 e 147d1-e3), ricorre all’immagine del nome come “statua delle cose”: è agalma, ad esempio, il nome ἄνθρωπος, da riferirsi sia all’idea noetica del referente, sia al referente sensibile stesso: «I nomi, se sono statue discorsive delle cose (ἀγάλματα τῶν πραγμάτων λογικά), lo sono primariamente delle cose immateriali, secondariamente di quelle sensibili (In Parm. 4, 851, 8-10 ed. Cousin). […] E infatti qui ‘uomo’, il nome ‘uomo’ dico, potresti dirlo in un modo (ἄλλως μέν) statua della specie divina (ἄγαλμα τοῦ θείου εἴδους), in un altro (ἄλλως δέ) di quella sensibile (τοῦ αἰσθητοῦ) (4, 851, 18-21)». Questo passo s’inserisce evidentemente all’interno della questione fondamentale sulla relazione dello stesso nome con l’idea, unica, e con le cose sensibili, molteplici. La medesima riflessione è espressa da Proclo in In Crat. 51, 19, 12-19. La costruzione delle statue a immagine degli dei è analoga alla costruzione del nome ad immagine delle cose, che è a sua volta analoga alla costruzione del cosmo a immagine dell’universo intelligibile.
L’analisi di tale analogia conduce allora ad una nuova possibile interpretazione della complessa relazione di partecipazione dei molti con l’uno, delle cose sensibili con le idee: è la natura iconica, capace di dare ragione del simile e del dissimile presente nelle cose e nell’uno, a garantire l’interezza dell’essere, così come è la stessa natura iconica che lega insieme nomi, cose e idee a garantire l’interezza del pensiero.
Sur la ὁμοιότης dans le langage et dans l’être chez Proclus interprète du Parménide de Platon
Ma contribution veut s’occuper d’une idée précise du Parménide, celle à travers laquelle le philosophe d’Élée, dès la première partie du dialogue (130e4-131a1) et, puis, dans son gymnasia (147d1-e3), stipule un lien très étroit, un rapport herméneutique entre être et langage. La question initiale est la suivante: pourquoi le langage? Pourquoi Platon, à travers Parménide, utilise justement le parallèle avec les noms, pour comprendre la relation entre l’un et l’autre? À mon avis, Proclus nous aide à trouver une réponse possible à cette question.
Dans les Eléments de théologie (65, 1-2), le philosophe lycien explique qu’il y a pour toute chose trois façons d’exister: dans sa propre subsistance (καθ᾽ ὕπαρξιν), ou bien en tant que contenue dans sa cause sous forme de principe (κατ᾽ αἰτίαν), ou bien encore en tant que participée par sa cause sous le mode d’image (κατὰ μέθεξιν εἰκονικῶς). L’être iconique d’une chose décrit cette dernière façon d’exister; elle désigne une chose qui est en relation de représentation avec une autre chose qui lui est supérieure mais qui se conserve toutefois en elle-même; ce rapport de participation, qui a une nature évidemment ontologique, considère le producteur contenu dans le produit (τὸ παραγόμενον) qui, à son tour, manifeste en lui-même (ἐν ἑαυτῷ δείκνυσι) sur le mode dérivé (δευτέρως) ce qu’est le producteur (ὃ τὸ παράγον) à titre premier (ὑπάρχει πρώτως). Eh bien, la façon d’exister du nom c’est κατὰ μέθεξιν εἰκονικῶς et ce qui, à mon avis, se révèle intéressant, c’est le fait que c’est à cette façon d’exister que les deux, aussi bien Platon que Proclus, se réfèrent lorsqu’ils veulent connecter l’être de la multiplicité et l’être du langage. Cette façon d’exister est à la base tant de l’être que de son expression.
Pour Proclus, le nom et l’image s’identifient à la relation, ils sont la relation. La nature iconique du nom en fait l’instrument le plus approprié pour représenter la relation ontologique: c’est précisément cette nature qui en garantit l’origine naturelle, son lien ontologique avec l’essence de la chose nommée (In Crat. 48, 16 , 13-19). Toutefois, c’est dans le Commentaire sur le Parménide que Proclus explique clairement que l’image a une nature ontologique très précise et autonome. Une caractéristique essentielle de l’image est représentée par le fait qu’elle est à la fois semblable et dissemblable par rapport à son modèle, de sorte que ce qui est l’image d’une chose se distingue de son modèle. Voilà comment, interprétant Parm. 130b1-6, à propos de la similitude en tant que principe cosmogonique, l’exégète explique que, pour qu’une chose devienne l’image d’une autre, il faut à la fois le dissemblable et le semblable (τὸ ἀνόμοιον καὶ τὸ ὅμοιον ). La similitude forme un couple avec la dissimilitude de manière connaturelle, parce que les êtres créés selon la ressemblance avec leurs modèles sont aussi distincts de ces modèles. En fait, les choses qui sont seulement semblables ne sont pas des images, puisque la similitude, sans la dissimilitude, est modèle et non pas image; néanmoins, les choses qui sont seulement dissemblables ne sont pas des images, puisque le nom même d’image désigne une forme qui ressemble à quelque chose d’autre (Procl. In Parm. 3, 805, 22-26). Ce qui est le plus grand intérêt c’est que le seul rapport qui existe entre semblable et dissemblable est une relation de type ontologique, celle qui existe entre les êtres d’ordre inférieur et les êtres d’ordre supérieur, le seul rapport qui est capable d’expliquer la relation entre l’un et les plusieurs, entre les images et leurs modèles (In Parm. 3, 806, 11-21). De même, si un nom contient à la fois des éléments semblables et des éléments dissemblables, il ne s’éloigne pas de l’essence de la chose représentée, mais manifeste plutôt sa propre nature relationnelle, iconique, son lien à l’essence de la chose.
Le fait que le langage et l’être partagent nature et expression est démontré, enfin, par une évolution figurative que cette théorie acquiert dans l’interprétation proclienne du Parménide et du Cratyle. Je me réfère à l’image du nom en tant que ἄγαλμα des choses nommées.
Proclus, quand il doit expliquer l’homonymie entre les idées et les participants (Platon en parle in Parm. 130e4-131a1 et 147d1-e3), utilise l’image du nom comme «statue des choses»: par exemple, le nom ἄνθρωπος est agalma en tant qu’il doit être attribué aussi bien à l’idée noétique du référent qu’au référent sensible même: «les noms s’ils sont des statues verbales des réalités (ἀγάλματα τῶν πραγμάτων λογικά), ils le sont à titre premier des formes immatérielles et à titre secondaire des sensibles (In Parm. 4, 851, 8-10). […] De fait, ‘homme’ ici-bas – je veux dire le nom d’homme – on peut le dire, dans un sens (ἄλλως μέν), statue de la forme divine (ἄγαλμα τοῦ θείου εἴδους), dans un autre (ἄλλως δέ), [statue] du sensible (τοῦ αἰσθητοῦ) (4, 851, 18-21)». Cet extrait s’insère évidemment à l’intérieur de la question fondamentale de la relation du même nom avec l’idée, unique, et avec les choses sensibles, multiples. La même réflexion est exprimée par Proclus in In Crat. 51, 19, 12-19. La construction de statues à l’image des dieux est analogue à la construction des noms à l’image des choses, qui est à son tour analogue à la construction du cosmos à l’image de l’univers intelligible.
L’analyse de cette analogie peut alors conduire à une nouvelle interprétation de la complexe relation de participation entre les choses sensibles et les idées: c’est la nature iconique, capable de “donner raison” du semblable et du dissemblable présents dans les choses et dans l’un, qui assure l’intégrité de l’être; de la même façon, c’est toujours la même nature iconique qui lie ensemble les noms, les choses et les idées et qui peut assurer l’intégrité de la pensée.