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Reference, Being and Participation. Parm. 160b4-163b5 and the Sophist

 

It has been frequently remarked in the Platonic scholarship that the so-called fifth deduction (D5)[1] of the second part of the Parmenides (160b5-163b6) paves the way for claims and arguments developed in the ontological section of the Sophist[2]. While I believe that there are good reasons to agree with this claim in general, I consider unsatisfactory the attempts made so far to clarify how exactly this preparation is supposed to work. The aim of this paper is to offer a fresh examination of (the main moves of) D5, in order to shed light on its connections with the Sophist.

I shall argue that far from providing us with a clear statement of the arguments or the theses spelled out in the Sophist, and in particular of the new qualified meaning of not-being in terms of difference, D5 is meant to stimulate us to reflect upon two main philosophical problems: (1) the metaphysical requirements for meaningful speech and thought; (2) the decisive function of the kind ‘being’ in the mechanism of the relation of participation.

It should never been forgotten that we are in the context of a γυμνασία, an exercise aimed at training the reader (in order to solve the difficulties raised in the first part of the dialogue), so that, rather than providing ready-made answers, Plato intends to challenge us with arguments that prompt us to work out solutions for ourselves[3].

My paper will be divided into two main parts – and, as it happens, I will have my analysis unfolding in parallel with the development of the sequence of thoughts in Plato’s text.

(1) I will first examine Parmenides’ introductory claim that if someone says that ‘the one is not, [it is] clear that what he says is not is different from the others (160c5-6)’. Some interpreters have maintained that the key to Parmenides’s argument would be the implicit introduction of a new meaning of μὴ ἔστι that, far from denoting the inexistence of the ‘one’, refers to its difference from something else. Thus, it is in virtue of such ‘not being’ that the one is ‘different from the others’[4]. This reading, I submit, can be questioned. For Parmenides makes it unequivocal that when someone says that ‘the one is not’, (s)he speaks of something knowable (γνωστόν τι) and different from others (ἕτερον τῶν ἄλλων), ‘whether he attaches being or not-being to it’ (εἴτε τὸ εἶναι αὐτῷ προσθεὶς εἴτε τὸ μὴ εἶναι)[5]. Thus, the difference of the one from other things does not depend upon the predication of not-being of it. What Parmenides rather emphasizes is that a meaningful and intelligible λόγος has always a τινός requirement[6], it must refer to something (τι), viz. have a subject that is not a pure nothing, but is rather something endowed with a distinctive identity which sets it apart from other things. That is why we are able to distinguish the sentence ‘if the one is not’ from ‘the not-one is not’[7]. The problem is that, normally in Plato’s dialogues, the τινός requirement is also an ὄντος requirement. Plato seems committed to a metaphysical principle according to which τι and ὄν are co-extensive[8] (cf. e.g. Tht. 189a6-8, Prm. 132b7-c7, Sph. 237d1-4). D5, however, establishes a disjunction between τι and ὄν. Thus, I take it that Plato is here pushing us to reconsider or refine the principle of coextensivity between τι and ὄν.

(2) In the second section, I discuss the function of the kind ‘being’ in the mechanism of the participatory relation. Parm. 160c5-6 is the pivotal first step into a series of inferences, which in turn lead to the provisional conclusion that ‘the one can’t be, if in fact it is not, but nothing prevents it from partaking of many things (μετέχειν δὲ πολλῶν οὐδὲν κωλύει)’[9]. The second section of my paper will be devoted to analyze this conclusion and its argumentative connection with the startling claim at 161e2-3 that, among the things that the one-that-is-not partakes in, there must be also, somehow, being (καὶ οὐσίας γε δεῖ αὐτὸ μετέχειν πῃ).

At 162a4, Parmenides qualifies being as an δεσμός, a bond. Based on this characterization (cf. also Sph. 253a5), Parmenides analyzes predicative judgments of the ‘x is F’ form as ‘x participates in being in relation to F’. The argument, I believe, is aimed at stimulating us to reflect on two problems. The first is that, as a δεσμός, being is a genus endowed with a peculiar ontological and predicative status that makes it responsible for the combination of other genres. This point will be further developed in the Sophist, through the famous analogy of the letters, and in particular through the idea that Being is a ‘vowel-kind’[10]. The second problem, on the other hand, concerns the complete use of the verb εἶναι. If Being were only a genus-δεσμός (or a vowel-kind), the statement ‘x is a being’ would give rise to an infinite regress. I believe that, by alluding to this risk, Plato intends to warn us that the verb εἶναι has both complete and incomplete uses, as will be pointed out at Sph. 255c13-4.

I will conclude with a brief recapitulation of the upshots of my reconstruction and develop some more general considerations on their meaning in the framework of Plato’s later metaphysics as a whole.

 

 

 

Riferimento, essere e partecipazione. Parm. 160b4-163b5 e il Sofista

 

È stato frequentemente osservato negli studi platonici che la cosiddetta quinta deduzione (D5)[11] della seconda parte del Parmenide (160b5-163b6) tesi e argomenti avanzati nella sezione ontologica del Sofista[12]. Ritengo che vi siano buone ragioni per concordare con questa posizione in generale, ma considero insoddisfacenti i tentativi compiuti finora per chiarire come esattamente si svolga questa ‘preparazione’ delle argomentazioni e delle tesi del Sofista. Lo scopo di questo articolo è, pertanto, di offrire un nuovo esame (delle principali manovre argomentative) di D5, al fine di gettar luce sulle connessioni fra essa e il Sofista.

Sosterrò che, lungi dal fornirci chiare formulazioni di argomenti o tesi sviluppati nel Sofista, e in particolare del nuovo significato del non essere in termini di differenza, D5 intende stimolarci a riflettere almeno su due problemi filosofici: (1) i requisiti metafisici dei correlati extra-linguistici del pensiero e del linguaggio dotati di significato; (2) la funzione del genere ‘essere’ nel meccanismo della relazione di partecipazione.

Non si deve mai dimenticare, infatti, che ci troviamo nel contesto di una γυμνασία, un esercizio che mira ad addestrare il lettore (al fine di risolvere le difficoltà sollevate nella prima parte del dialogo), per cui, piuttosto che fornire risposte pronte, Platone intende metterci alla prova con argomenti che ci inducano ad elaborare autonomamente le soluzioni[13].

Il mio intervento si articolerà in due parti principali – e, di fatto, la mia analisi procederà in parallelo con lo sviluppo della sequenza argomentativa del testo platonico.

(1) Esaminerò innanzitutto l’affermazione iniziale di Parmenide secondo cui, se qualcuno afferma che ‘nell’ipotizzare che l’uno non è, [risulta evidente che] ciò che non è costituisce qualcosa di diverso dalle altre cose’ (160c5-6)’. Alcuni interpreti hanno sostenuto che la chiave dell’argomento di Parmenide sarebbe l’implicita introduzione di un nuovo significato di μὴ ἔστι che, lungi dal denotare l’inesistenza dell’uno, si riferisce alla sua differenza dalle altre cose. Così, è in virtù di tale ‘non essere’ che l’uno sarebbe ‘diverso dalle altre cose’[14]. Questa lettura, ritengo, può essere messa in discussione. Infatti Parmenide rende inequivoco che quando qualcuno afferma che ‘uno non è’, egli/ella parla di qualcosa di conoscibile (γνωστόν τι) e diverso dalle altre cose (ἕτερον τῶν ἄλλων), ‘sia che si aggiunga ad esso l’essere, sia il non essere (εἴτε τὸ εἶναι αὐτῷ προσθεὶς εἴτε τὸ μὴ εἶναι)[15]. Perciò, la differenza dell’uno dalle altre cose non dipende dalla predicazione del non essere di esso. Ciò che Parmenide intende invece evidenziare è che un λόγος comprensibile e dotato di senso deve sempre rispettare il ‘Requisito di un τινός’[16], deve riferisti a qualcosa (τι), ovvero avere un soggetto che non è un puro nulla, ma è piuttosto qualcosa dotato di un’identità distintiva che lo distingue dal resto. Ecco perché noi siamo in grado di discernere la frase ‘se l’uno non è’ da ‘se il non-uno non è’[17]. Il problema è che, di norma, nei dialoghi di Platone, il requisito τινός è anche un requisito ὄντος. Platone sembra accettare un principio metafisico secondo cui τι e ὄν sono coestensivi[18] (cfr. e.g. Tht. 189a6-8, Prm. 132b7-c7, Sph. 237d1-4). D5, tuttavia, stabilisce una disgiunzione tra τι e ὄν. Ritengo, perciò, che Platone ci stia spingendo a riconsiderare o rifinire il principio di coestensività tra τι e ὄν.

(2) Nella seconda sezione, discuto la funzione del genere ‘essere’ nell’esplicazione della relazione partecipativa. Parm. 160c5-6 è il fondamentale primo passo verso una serie di inferenze, che a loro volta condurranno alla conclusione provvisoria che ‘all’uno, visto che non è, non sarà possibile essere; tuttavia, nulla impedisce che partecipi di molte cose (μετέχειν δὲ πολλῶν οὐδὲν κωλύει)’[19]. La seconda sezione del mio articolo sarà dedicata ad analizzare questa conclusione e la sua connessione argomentativa con la sorprendente affermazione in 161e2-3 che, fra le cose di cui l’uno-che-non-è partecipa vi è, in qualche modo, anche l’essere (καὶ οὐσίας γε δεῖ αὐτὸ μετέχειν πῃ).

In 162a4, Parmenide qualifica l’essere come un δεσμός, un legame. Sulla base di questa caratterizzazione, ripresa in Sph. 253a5, Parmenide analizza giudizi predicativi della forma ‘x è F’ come ‘x partecipa dell’essere in relazione a F. L’argomento, ritengo, è finalizzato a stimolarci a riflettere su due problemi. Il primo è che, nella sua funzione di δεσμός, l’essere è un genere dotato di un peculiare statuto ontologico e predicativo che lo rende responsabile della combinazione di altri generi. Questo punto verrà ulteriormente illustrato nel Sofista, attraverso la celebre analogia delle lettere, e in particolare tramite l’idea che l’Essere è un ‘genere-vocale’[20]. Il secondo problema, invece, riguarda l’uso completo del verbo εἶναι. Se l’Essere fosse solo un genere-δεσμός (o genere-vocale), l’enunciato ‘x è un ente’ darebbe vita ad un regresso infinito. Ritengo che, alludendo a questo pericolo, Platone intenda avvertire che il verbo εἶναι gode di usi sia completi che incompleti, come verrà indicato in Sph. 255c13-4.

Concluderò con una breve ricapitolazione delle acquisizioni della mia ricostruzione e svolgendo alcune considerazioni più generali sul loro significato nel quadro della comprensione della metafisica platonica.

 

 

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[1] The number of the so-called deductions of the second part of the Parmenides is a notorious vexata quaestio. The reasons why I talk of a ‘fifth’ deduction rely on Brisson-Décarie 1987. Translations of the Parmenides are after Gill-Ryan 1996. The editions of the Greek texts are Moreschini 1966 (Prm) and Burnet 1901-7 (other dialogues).

[2] Cf. e.g. Grote 1865: 312; Natorp 1903: 271-2; Friedländer 1928-30: 195; Cornford 1939: 231; Miller 1986: 149; McCabe 1996: 36; Fronterotta 1998: 97-8; Scolnicov 2003: 147; Ferrari 2004: 141. Allen 1983: 328-9 denies that the problems raised at D5 are close those found in the Sophist, but his arguments are far-fetched.

[3] This interpretative principle of the γυμνασία is close to that of Cornford 1939: 109-15 and Gill-Ryan 1996: 104-8.

[4] Cf. in particular Scolnicov 2003: 147; but also Friedländer 1930: 195-6; Migliori 1990: 328; Berti 1992: 69-70; McCabe 1996: 36; Fronterotta 1998: 97-8. But see already Damasc. In Parm. 82.1-6 Westerink.

[5] Parm. 160c8-d1. My italics.

[6] Cf. Thomas 2008: 632 and passim for the expression ‘τινός requirement’ and a treatment of the reference issue in the Sophist.

[7] This reading is close with those of Natorp 1903: 271-2 and especially Cornford 1939: 231, although, as I will explain in the full version of the paper.

[8] Cf. especially Brunschwig 1988, Aubenque 1991 and Thomas 2008.

[9] Parm. 160e7-8. My italics.

[10] Cf. Crivelli 2012: 116 who perceptively claims that ‘Plato seems committed to distinguishing two levels of combination: immediate and mediated combination, which occurs thanks to the immediate combination of a further factor (the vowel-kind being)’.

[11] Il numero delle cosiddette deduzioni della seconda parte del Parmenide è una notoria vexata quaestio. Le ragioni per cui parlo di una ‘quinta’ deduzione si basano su Brisson-Décarie 1987. Le traduzioni del Parmenide seguono Ferrari 2004. Le edizioni dei testi greci utilizzate sono Moreschini 1966 (Prm) e Burnet 1901-7 (altri dialoghi).

[12] Cfr. e.g. Grote 1865: 312; Natorp 1903: 271-2; Friedländer 1928-30: 195; Cornford 1939: 231; Miller 1986: 149; McCabe 1996: 36; Fronterotta 1998: 97-8; Scolnicov 2003: 147; Ferrari 2004: 141. Allen 1983: 328-9 nega che i problem sollevati in D5 siano simili a quelli del Sofista, ma i suoi argomenti sono inconsistenti.

[13] Questo principio interpretativo della γυμνασία si ispira a quello formalizzato in Cornford 1939: 109-15 e Gill-Ryan 1996: 104-8

[14] Cfr. in particolare Scolnicov 2003: 147; ma anche Friedländer 1930: 195-6; Migliori 1990: 328; Berti 1992: 69-70; McCabe 1996: 36; Fronterotta 1998: 97-8. Si veda già Damasc. In Parm. 82.1-6 Westerink.

[15] Parm. 160c8-d1. Corsivi miei.

[16] Cfr. Thomas 2008: 632 and passim f per l’espressione ‘τινός requirement’ e una trattazione del problema del riferimento nel Sofista.

[17] La mia lettura ha alcuni punti di tangenza con Natorp 1903: 271-2 e, soprattutto, con Cornford 1939: part. 230-231, sebbene, come spiegherò nella versione completa del paper, ritengo che la loro analisi vada integrata.

[18] Cfr. soprattutto Brunschwig 1988, Aubenque 1991 e Thomas 2008.

[19] Parm. 160e7-8. Corsivi miei.

[20] Cf. Crivelli 2012: 116 che acutamente afferma ‘Plato seems committed to distinguishing two levels of combination: immediate and mediated combination, which occurs thanks to the immediate combination of a further factor (the vowel-kind being)’.

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