Il prologo come figura del dialogo intero
Nella premessa del commento di Proclo al Parmenide di Platone (I 658.23–659.17 Steel), il filosofo spiega il significato dei proemi dei dialoghi, le scene di apertura nelle quali Platone presenta i personaggi e la conversazione si avvia nella direzione del significato del dialogo in questione. Secondo Proclo la scena iniziale è fondamentale perché presenta un’immagine nella quale il dialogo intero è rappresentato o riflesso (il verbo è eneikonizetai, I 659.10 Steel). Io credo che non sia un caso che tale considerazione generale di Proclo sui dialoghi platonici sia collocata proprio nella premessa del commento al Parmenide, infatti il prologo del Parmenide è in questo senso esemplare e nel mio contributo al Symposium Platonicum di Parigi amerei poterlo argomentare. Quel che vorrei mostrare è che nel prologo del Parmenide siano in nuce raffigurate la prima e la seconda parte del dialogo.
Dopo aver ascoltato i logoi di Zenone, Socrate dice a Parmenide che Zenone desidera essere legato al suo amico, a Parmenide stesso, non solo mediante la philia, ma anche mediante il sungramma, il testo scritto (128a). Nel Fedro (278d) il sungramma si configura come un’immagine di qualcosa di più importante e in questo caso il qualcosa di più importante sarebbe la philia che lega Zenone a Parmenide.
Infatti, nel sungramma, di cui è stata appena ascoltata la lettura, Zenone – dice Socrate – ha mostrato che ou polla esti (127e, 128b), che il molteplice non è. Ma Parmenide aveva già dimostrato che hen to pan, che uno è il tutto (128a-b).
Parmenide e Zenone, dunque – osserva Socrate – dicono cose simili che sembrano diverse (128b). Dicono hen ma sembrano dire polla. L’essenza del loro dire è una e simile, l’apparenza è molteplice e diversa. Questa situazione, configurata nel commento socratico del sungramma zenoniano, dimostra alcune caratteristiche della scrittura platonica. Esse possono essere schematizzate come segue:
- l’argomento eleatico dell’uno e dei molti e della somiglianza e della dissomiglianza non è soltanto enunciato da Parmenide e Zenone, personaggi del dialogo platonico, ma è per così dire incarnato da essi, i quali, nel contesto drammatico del prologo, appaiono essere essi stessi la messa in scena, visibile e tangibile, del loro argomento: essi sono la testimonianza evidente di una molteplicità che è solo apparente, perché in realtà Parmenide ha scritto la stessa cosa di Zenone (tauton gegraphe tropon, 128a), e quindi i loro discorsi (che sono due) sono in realtà uno, perché dicono schedon tautà (pressappoco le stesse cose), ma non sembrano farlo (128b).
Essi e i loro discorsi sono simili e dissimili. Sono apparentemente dissimili e in realtà simili. La dissomiglianza è solo nello scritto ma la somiglianza abita l’essenza della philia che li lega e che è testimoniata dall’intento di Zenone di portare una boetheia a Parmenide (128c).
- Parmenide e Zenone incarnano il loro argomento, ma, incarnandolo e mettendolo in scena, essi dimostrano la verità non dell’argomento che incarnano (tutto è uno, i molti non sono), né della dimostrazione che dell’argomento offre Zenone (se i molti fossero, patirebbero conseguenze impossibili: sarebbero simili e dissimili, 127e), bensì della interpretazione socratica di esso: non c’è nulla di straordinario (thaumaston, 129b1) se i molti (Parmenide e Zenone) sono anche uno, sono simili e dissimili (dicono la stessa cosa e non dicono la stessa cosa). Quel che sarebbe straordinario non è il somigliare dello scritto di Parmenide a quello di Zenone e contemporaneamente l’essere dissimili dei due scritti: straordinario sarebbe l’esser qualcosa dissimile da sé stesso. Quel che sarebbe thaumaston sarebbe la contraddizione non nell’apparire (che è una molteplicità irriducibile all’unità e dunque costitutivamente attraversata dalla contraddizione), ma nell’essere. Non negli scritti considerati l’uno in relazione all’altro, o l’interpretazione dell’uno in relazione a quella dell’altro. Thaumaston sarebbe la contraddizione non tra linguaggio e pensiero, non tra sensibile e intellegibile (dunque non tra i molti, né tra i molti e l’uno), bensì nel pensiero in sé stesso (nell’uno stesso).
- Parmenide e Zenone, criticando la separazione delle forme dalle cose (130b), appiattiscono l’essere sull’apparire (un atteggiamento che li accomuna ai sofisti) e così facendo contraddicono proprio ciò che hanno messo in scena: che ciò che sembra (che dicano cose dissimili) sia diverso da ciò che è (che dicono pressappoco la stessa cosa, che dicono cose simili).
- Nella seconda parte del dialogo viene argomentata l’impossibilità della tesi eleatica (l’appiattimento dell’essere sull’apparire, concezione fisicista della realtà) perché è essa che conduce a conseguenze contraddittorie. Nella seconda parte del Parmenide, dunque, Platone – applicando il metodo dialettico la cui invenzione risale a Zenone (e dunque ritorcendo contro gli eleati la loro stessa argomentazione)- mostra non una revisione della teoria delle idee, come tanto spesso si dice, bensì le conseguenze contraddittorie cui porterebbe l’interpretazione eleatica di tale teoria, interpretazione incapace di concepire la natura metafisica delle idee e dunque la differenza tra l’apparire e l’essere. E’ negligendo questa differenza, e non ammettendola, che si giunge a quelle conseguenze contraddittorie di cui parla Zenone in 130a-135c.
The Prologue as an Image of the Dialogue as a Whole
In the prologue to Proclus’ commentary on Plato’s Parmenides (I 658.23–659.17 Steel), the philosopher explains the meaning of the prologues to the dialogues, the opening scenes in which Plato presents the various characters and the conversation approaches the topics at issue. According to Proclus, the opening scene is crucial because it offers an image that represents or reflects the dialogue as a whole (the verb used is eneikonizetai, I 659.10 Steel). I believe that it is hardly a coincidence that this general statement by Proclus about the Platonic dialogues occurs precisely in the prologue to the commentary on the Parmenides. Indeed, in this respect the prologue to the Parmenides is an exemplary one, and this is something I would like to discuss in my contribution to the Symposium Platonicum in Paris. What I would like to show is that the prologue to the Parmenides represents the first and second parts of the dialogue in embryonic form.
After having listened to Zeno’s logoi, Socrates tells Parmenides that Zeno wishes to be bound to his friend, Parmenides, not just by philia but by the sungramma, the written text (128a). In the Phaedrus (278d) the sungramma embodies something more important, namely the philia binding Zeno and Parmenides.
Indeed, according to Socrates, in the sungramma, which has just been read aloud, Zeno has shown that ou polla esti (127e, 128b), i.e. that the many are not. But Parmenides had already demonstrated that hen to pan, that the all is one (128a-b).
Parmenides and Zeno, therefore – Socrates observes – say similar things that seem different (128b). They say hen but seem to be saying polla. The essence of their speeches is one and the same, its appearance is manifold and different. This situation, outlined in the Socratic commentary on Zeno’s sungramma, reflects certain features of Platonic writing. These can be summed up as follows:
- the Eleatic argument about the one and the many and about similarity and dissimilarity is not merely enunciated by Parmenides and Zeno, as characters in Plato’s dialogue, but is so to speak embodied by them. In the dramatic context of the prologue they seem to be providing a visible and tangible mise-en-scène of their argument: they stand as evidence of a multiplicity that is only apparent, because in reality Parmenides has written the same thing as Zeno (tauton gegraphe tropon, 128a); hence, their speeches (which are two) are actually one, as they are saying schedon tautà (roughly the same things), even though they do not appear to be doing so (128b).
The two characters and their speeches are both similar and dissimilar. They are apparently dissimilar but in reality similar. The dissimilarity only exists as far as the writing is concerned, whereas the similarity concerns the essence of the philia that binds them and which is witnessed by Zeno’s intention to offer Parmenides boetheia (128c).
- Parmenides and Zeno embody their argument but, by embodying and staging it, they show the truth not of the argument they embody (all is one, the many are not), or of the demonstration that the argument offers Zeno (if the many existed, impossible consequences for them would ensue: they would be both similar and dissimilar, 127e); rather, they show the truth of the Socratic interpretation of this argument: there is nothing amazing (thaumaston, 129b1) in the fact that while the many (Parmenides and Zeno) are one, they are both similar and dissimilar (they are both saying and not saying the same thing). What is amazing is not the fact that Parmenides’ text resembles Zeno’s one, although at the same time the two pieces of writing are dissimilar; rather, what would be amazing would be to have something that is dissimilar to itself. What is thaumaston is contradiction not in terms of appearance (which is a multiplicity irreducible to unity and hence intrinsically marked by contradiction), but in terms of being. The amazing does not lie in the texts considered in relation to one another, or in the interpretation of the one in relation to the other. What is thaumaston is the contradiction not between language and thought, or between the sensible and the intelligible (hence, not between the many, or between the many and the one), but rather contradiction within thought itself (i.e. in the one itself).
- By criticising the separation of forms from things (130b), Parmenides and Zeno reduce being to appearance (an attitude they share with the sophists). In doing so, they contradict what they have staged, namely: the fact that what seems to be (i.e. that they are saying different things) is different from what is (i.e. that they are saying roughly the same thing, that they are saying similar things).
In the second part of the dialogue the debate shifts to the impossibility of the Eleatic thesis (the reduction of being to appearance, and the physicalist conception of reality), because it leads to contradictory outcomes. In the second part of the Parmenides, therefore, Plato – by applying the dialectical method first developed by Zeno (and hence turning the Eleatics’ own argument against them) – outlines not a revision of the theory of Ideas, as scholars often maintain, but rather the contradictory outcomes of the Eleatic interpretation of this theory: an interpretation incapable of conceiving the metaphysical nature of the Ideas and hence the difference between appearance and being. It is by overlooking this difference, and not by granting it, that we reach those contradictory outcomes mentioned by Zeno in 130a-135c.